MONDIALE 1934: PALESTINA     NAZIONALE SENZA STATO PER LA PRIMA VOLTA IN CAMPO

I DIECI MIGLIORI URUGUAYANI NEL CAMPIONATO ITALIANO SCHIAFFINO E ANDREOLO I BIG

 

di FRANCO ASTENGO          

L’Uruguay,  un piccolo paese dell’America del Sud grande come l’Italia del Nord Ovest ma con una popolazione molto inferiore di numero (nemmeno 3,5 milioni di abitanti), ha sempre  rappresentato una grande potenza calcistica: due campionati del mondo, diverse Coppa America, semifinali ai mondiali dagli albori ai giorni nostri. Grandi campioni che hanno illuminato la storia del calcio molti dei quali presenti in varie epoche nel nostro campionato.

Come è già avvenuto per gli argentini allora abbiamo provato a compilare (con qualche difficoltà per l’eccesso di scelta) una – naturalmente opinabile – classifica dei 10 migliori rappresentanti delle “Celeste” proprio nel nostro campionato. Da notare la presenza in lista di due campioni del mondo nell’edizione 1950 quella del famoso “Marcanazo” ossia la beffa giocata al Brasile nell’ultima partita del girone finale. Anzi nel nostro elenco si trovano collocati gli autori delle due reti che decisero quel match a favore della “Banda Oriental”: Pepe Schiaffino, futuro “cervello” del Milan, e Alcide Ghiggia, guizzante ala della Roma.

Naturalmente sono da considerare anche gli “esclusi”, molti dei quali sicuramente debbono essere valutati  come giocatori di grande classe se pensiamo allo Scarone della Fiorentina anni ’30, al genoano e poi vicentino Leopardi negli anni ’50, all’interista e laziale Ruben Sosa , al difensore di Atalanta e Cagliari Herrera. Al Genoa ricordano anche il goleador Carlos Aguilera, poi al Torino.

Dall’Uruguay sono arrivati anche atleti che non hanno mantenuto le promesse della vigilia. Per fare soltanto alcuni esempi: clamoroso il caso dell’interista Washington Cacciavillani, che poi non indossò mai il neroazzurro, finì alla Pro Patria per chiudere poi la carriera al Siracusa. Impalpabile all’Atalanta il centravanti Nelson Cancela, mentre al Genoa con Aguilera arrivarono due celebrati campioni Perdomo e Paz che in maglia rossoblu, invece, delusero largamente.

Infine non rimane che ricordare che, come sempre accade in queste occasioni, sono esclusi i giocatori ancora in attività e di uruguyani presenti nell’attuale campionato italiano ce ne sono e di validissimi.

1)    JUAN PEPE ALBERTO SCHIAFFINO

Juan Alberto Schiaffino (Montevideo, 28 luglio 1925 – Montevideo, 13 novembre 2002) è stato un calciatore e allenatore di calcio uruguaiano naturalizzato italiano, che occupò i ruoli di interno sinistro e di regista, successivamente.

Ha scritto di lui Eduardo Galeano:

« Schiaffino, con sus jugadas magistrales, armaba el juego de su equipo como si estuviera allá en la torre más alta del estadio, observando toda la cancha.[4] »  

« Schiaffino, con le sue giocate magistrali, organizzava il gioco della squadra come se stesse osservando tutto il campo dalla più alta torre dello stadio. »

Schiaffino diede i primi calci nei campi di Pocitos, spiaggia di Montevideo. All’età di 8 anni andò nella squadra del suo barrio, il Palermo. Era impiegato come ala destra. La sua prima squadra vera fu l’Olimpia, alla quale arrivò nel 1937. Poi fu la volta del Nacional, dove ebbe una breve esperienza. Nel 1943 il Peñarol organizzò un torneo a Las Acacias (barrio di Montevideo) per testare nuovi giocatori e, insieme al fratello Raúl, partecipò giocando per El Tigre, squadra di Pocitos. Grazie anche a Raúl, già nella rosa della squadra, fu selezionato ed entrò nel settore giovanile; l’anno seguente era già titolare. Si fece subito conoscere come il Piccolo Maestro, soprannome assegnatogli per distinguerlo da una vecchia gloria dell’epoca, José Piendibene, famoso come ilGran Maestro.

Grazie alle sue prestazioni ai mondiali del 1950 e del 1954 Schiaffino si fece conoscere in tutto il mondo e dall’Italia arrivarono diverse richieste. Il primo tentativo, del Genoa, non andò a buon fine: gli emissari rossoblù non conclusero la trattativa, perché reputarono il prezzo del calciatore troppo alto. In seguito fu il Milan a fargli la corte e questa volta ci fu l’accordo. L’incontro con Mimmo Carraro, allora dirigente dei rossoneri, si svolse a Hilterfingen, in Svizzera, nel ritiro della nazionale uruguaiana pronta a disputare i mondiali del 1954.

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Schiaffino (in piedi, primo da sin.) nella formazione del Milan vincitore della Coppa Latina 1956

Una volta ufficializzato il trasferimento – per la cifra di 52 milioni di lire – il quindicinale Peñarol di Montevideo titolò: «Se nos fué el Dios del Futbol. Irreparabile perdida.» («Il Dio del pallone se n’è andato. Una perdita irreparabile») Schiaffino arrivò in Italia quasi trentenne: la sua carriera però non era sul viale del tramonto, come credevano i dirigenti del Peñarol. Dopo aver illumionato il centrocampo del Milan, concluse la sua carriera alla Roma, giocando due stagioni, fino al 1952. A 35 anni il fisico non lo sosteneva più tanto, così arretrò trovando la posizione di libero, davanti al portiere. Anche alla Roma diede il suo contributo, vincendo già alla prima stagione la Coppa delle Fiere, anche se non giocò la finale. Con Manfredini detto “Piedone” ebbe un’ottima intesa.

Da raccontare, nella carriera di Schiaffino, la vicenda dell’ultima partita dei Mondiali ’50, quella del famoso “Maracanazo” e del titolo “scippato” ai padroni di casa del Brasile.

“Il giorno della partita, l’esterno del Maracanã appariva tappezzato di cartelloni recanti la scritta Homenagem aos campeões do mundo (Omaggio ai campioni del mondo). Lo stadio era esaurito in ogni ordine di posto. Gli spettatori paganti risultarono ufficialmente 173.850, quelli presenti 199.854, un record ancora imbattuto. Appena un centinaio di essi erano tifosi uruguaiani. Per il resto, le decine di migliaia di tifosi locali animarono un’accesissima torcida, con bandiere, striscioni e petardi, alcuni dei quali furono lanciati, durante il riscaldamento, contro i calciatori uruguaiani, al fine di infastidirli.

La partita era in programma alle ore 15.00. Prima del fischio d’inizio, con le squadre già schierate a centrocampo, prese la parola il generale Ângelo Mendes de Morais, prefetto del Distretto Federale, il quale pronunciò un breve discorso, emblematico della certezza che i brasiliani riponevano nella vittoria della propria nazionale:

«Voi, brasiliani, che io considero vincitori del Campionato del Mondo.

Voi, giocatori, che tra poche ore sarete acclamati da milioni di compatrioti.
Voi, che avete rivali in tutto l’emisfero. Voi che superate qualsiasi rivale. Siete voi che io saluto come vincitori! »

(Ângelo Mendes de Morais)

Nel primo tempo il Brasile, pur schierato con l’offensivo “WM”, non andò a segno. Nonostante il pressing asfissiante degli avversari, gli uruguaiani, chiusi in un rigido catenaccio, riuscirono a resistere agli attacchi della Seleçao. Nella ripresa, dopo appena settantotto secondi, Ademir, servito da Zizinho, crossò per Friaça, che batté con un tiro in diagonale il portiere uruguaiano Máspoli, portando in vantaggio il Brasile. Il Maracanã esplose di gioia.

L’Uruguay tuttavia proseguì nel suo gioco ordinato, guidato dalla regia di Schiaffino. Al 66′, dopo una rapida progressione sulla fascia sinistra, Ghiggia saltò il brasiliano Bigode e servì proprio il Pepe, che, a tu per tu con Barbosa, mise la palla in rete. Sebbene il pareggio li favorisse ancora, i brasiliani perseverarono nel proprio pressing offensivo, ma, complici la stanchezza e l’inattesa marcatura subita, il loro gioco iniziò a perdere di lucidità.

Al 79′, Ghiggia, servito da Pérez, compì un altro dribbling sulla fascia sinistra, mentre nell’area brasiliana erano presenti tre compagni di squadra, tra cui Schiaffino. Aspettandosi il cross a uno di questi ultimi, il portiere brasiliano Barbosa accennò un’uscita, muovendosi all’interno dell’area piccola e rendendo così sguarnito il lato sinistro della porta. Ghiggia sfruttò lo spazio lasciato dall’estremo difensore brasiliano e calciò direttamente in rete, realizzando il 2-1 per l’Uruguay. Sul Maracanã cadde il silenzio. I calciatori brasiliani cercarono disperatamente il gol del pareggio, ma l’Uruguay si chiuse in difesa con tutta la squadra e il risultato non cambiò più. Brasile in lutto. Secondo notizie giornalistiche pare si siano registrati anche numerosi suicidi.

2)    MICHELE ANDREOLO

Miguel Ángel Andriolo Frodella, italianizzato in Michele Andreolo (Carmelo, 6 settembre 1912 – Potenza, 14 maggio 1981, è stato un allenatore di calcio e calciatore uruguaiano naturalizzato italiano, di ruolo centromediano, fu campione del Mondo nel 1938 con la Nazionale italiana.

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Michele Andreolo con la maglia del Bologna

Cresciuto a Dolores, nato a Carmelo ma originario di Valle dell’Angelo in provincia di Salerno, Miguel Andreolo – poi italianizzato in Michele -, conosciuto in Uruguay anche come Miguel Andriolo, come lui stesso si firmava nei documenti ufficiali, esordì come calciatore nella squadra locale del Libertad F.C., nel 1931. Nel 1932, “el Chivo” – così era soprannominato in Uruguay – venne ingaggiato dal Nacional Montevideo, il celebre club tricolor della capitale Oriental. Con il Nacional vinse due titoli nazionali, nel 1933 e nel 1934, diventando in breve tempo un punto fermo della squadra e uno dei beniamini della tifoseria. Il 25 agosto del 1934, faceva parte dell’undici titolare che affrontò nella finale di campionato il Peñarol. L’incontro – uno degli episodi più significativi della storia del Nacional Montevideo – fece epoca, e passò alla storia come “el clásico de los 9 contra 11”. Le sue qualità non passarono inosservate, e venne convocato nella “Celeste” per il Campeonato Sudamericano de Football 1935. L’Uruguay vinse il torneo, ma Andreolo non fu schierato, essendo il suo ruolo occupato da Lorenzo Fernández, campione olimpico ad Amsterdam 1928 e campione del mondo 1930.

Arrivò ventitreenne alla Serie A, e centrò in quel primo anno in Italia, il 1935-1936, la vittoria dello scudetto con la maglia del Bologna. Durante il periodo bolognese sbagliò l’unico rigore tirato nella sua carriera italiana in un Bologna-Fiorentina. Con il Bologna si distinse anche a livello internazionale, nella Coppa Mitropa, dove i suoi duelli contro Matthias Sindelar e György Sárosi fecero epoca. Bissato il titolo tricolore nella stagione 1936-37, nel mese di giugno del 1937 fu protagonista della vittoria nel Torneo Internazionale dell’Expo Universale di Parigi, in cui il Bologna sconfisse in finale gli inglesi del Chelsea per 4 a 1. Con la maglia rossoblù del Bologna vinse altri due scudetti (1938-1939 e 1940-1941) portando a 4 il suo palmarès personale.

Durante il periodo bellico disputò e vinse il Campionato romano di guerra 1943-1944 con la maglia della Lazio. Nel dopoguerra giocò con il Napoli in Serie A e con Catania e Forlì in Serie C. Con l’Uruguay partecipò alla vittoria del Campeonato Sudamericano del 1935 – l’attuale Coppa America -, senza essere mai schierato. Arrivato in Italia fu convocato in Nazionale italiana da Vittorio Pozzo ed esordì il 17 maggio 1936 a Roma, in una gara amichevole contro l’Austria. Diventò Campione del Mondo nel 1938 in Francia e chiuse in seguito, nel 1942, la carriera in Nazionale con 26 presenze e un gol.

3)    ENZO FRANCESCOLI

Enzo Francescoli Uriarte (Montevideo, 12 novembre 1961) è un dirigente sportivo ed ex calciatore uruguaiano di ruolo mezzapunta centrale. Campione sudamericano con la Nazionale uruguaiana nel 1983, 1987 e 1995. Attualmente è direttore sportivo del River Plate.

Nato a Montevideo da famiglia di origine italiana, iniziò la carriera professionistica nel Montevideo Wanderers, club di medio-alto livello della sua città, nelle cui giovanili militò dal 1977 al 1979 e nella cui prima squadra tra il 1980 e il 1982. Nell’estate di quell’anno passò agli argentini del River Plate, con cui divenne alla prima stagione capocannoniere del campionato con 24 goal in 32 incontri.

L’anno seguente si ripeté, stavolta con 25 centri in 34 match. Stupì tutti quando, nel 1986, lasciò l’Argentina per una modesta squadra francese, il Racing Club de France (che poi assumerà il nome di ‘Matra Racing Paris’). Stella assoluta di questa società, dopo tre anni passò all’Olympique de Marseille, con cui giocò 28 partite (condite da 11 gol) nella serie A di Francia vincendo il campionato nazionale.

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Francescoli in azione con la maglia del Cagliari in un match casalingo contro l’Inter della stagione 1992-93

Si trasferì in Italia nel 1990, anno in cui venne ingaggiato dal Cagliari insieme ad altri due uruguaiani: “Pepe” Herrera e Daniel Fonseca. Con i rossoblù Francescoli arretrò la sua posizione in campo, perdendo quasi totalmente la sua verve offensiva: in tre anni segnò solo 17 reti in 98 sfide di campionato, ma i tifosi sardi lo ricordano comunque ancora come uno dei più grandi calciatori della storia del Cagliari. Infatti, anche se in Italia non si caratterizzò come un prolifico realizzatore, fu comunque grande il contributo che diede al Cagliari per raggiungere la salvezza nelle stagioni 1990/91 e 1991/92. Ma soprattutto, Francescoli con le sue reti e le sue giocate, diede un fondamentale apporto ai rossoblù per la qualificazione alla la Coppa Uefa nella stagione 1992/93. Indelebile nella memoria dei tifosi del Cagliari, resta il gol contro la Sampdoria campione d’Italia nella prima giornata del campionato 1991/1992. Nel 1993 passò al Torino, con cui giocò solo una stagione (24 presenze e appena 3 centri).

Nel 1994 tornò al River Plate, il club in cui Francescoli si era meglio espresso. Restò fino al 1997, anno del suo ritiro dall’agonismo, e pur sommerso da infortuni ed acciacchi riuscì a tornare grande (19 goal nel 1996). Con il River iniziò la stagione 1997-1998, ma la interruppe a dicembre dopo essere sceso in campo sei volte ed aver messo la palla in fondo alla rete una volta. A tutt’oggi è il terzo miglior bomber della storia del River Plate.

Molto stimato da Zinédine Zidane (che ha chiamato il suo primogenito Enzo in suo onore), Francescoli era soprannominato “El Flaco” per la sua magrezza ed era considerato l’alter ego sudamericano di Roberto Baggio. Con la nazionale del suo paese ha disputato sia i mondiali del 1986 che quelli del 1990, riuscendo a riportare il calcio uruguagio a discreti livelli. Nel marzo del 2004 è stato inserito dal grande attaccante brasiliano Pelé all’interno del FIFA 100, la speciale classifica che include i migliori calciatori del mondo di tutti i tempi.

A causa della forte somiglianza, il calciatore Diego Milito, ex Genoa e Inter, ha ereditato da lui il soprannome El Príncipe.

4)    ALCIDE GHIGGIA

Alcides Edgardo Ghiggia (Montevideo, 22 dicembre 1926 – Las Piedras, 16 luglio 2015) è stato un calciatore uruguaiano naturalizzato italiano.

Fu l’autore della rete decisiva nella vittoria della nazionale uruguaiana contro quella brasiliana nella partita finale dei Mondiali del 1950, che vide l’Uruguay campione del mondo; la partita è ricordata dai brasiliani come il “Maracanazo”. Ghiggia vestì da oriundo anche la maglia della nazionale italiana, dal 1957 al 1959. Non eccelso fisicamente (169 centimetri per 62 chili), Ghiggia era un’ala destra dal dribbling fulminante. Iniziò a giocare nel 1944 nelle serie inferiori, con la squadra del Sud América. Esordì nella Prima divisione uruguaiana nel 1946 con il Club Atlético Progreso; l’anno successivo la sua squadra retrocesse, e il giovane Ghiggia giocò un anno in Seconda divisione.

Nel 1948 Ghiggia fu acquistato dal Peñarol di Montevideo, ove già brillava la stella di Juan Alberto Schiaffino. Chiuso da compagni più anziani ed esperti, non fu utilizzato, nelle poche partite di un campionato che non si completò mai per uno sciopero dei calciatori. Nel 1949 fu promosso in prima squadra e contribuì con 8 gol alla vittoria in campionato. Sconosciuto a livello internazionale, fu convocato dal commissario tecnico Juan Lopez ed esordì in Nazionale il 6 maggio 1950 nella Coppa Rio Branco, proprio contro il Brasile a San Paolo: l’Uruguay vinse 4-3. Fu la prima delle dodici presenze consecutive di Ghiggia con la maglia celeste. Il Brasile si aggiudicò di misura (3-2 e 1-0) le successive due partite del torneo, giocatesi a Rio de Janeiro, ma il risultato complessivo dimostrava che le due squadre si equivalevano.

Ai successivi Campionati del Mondo tenutisi immediatamente dopo sempre in Brasile, Ghiggia realizzò una rete in ogni partita della Celeste: al primo turno nella sonante vittoria contro la Bolivia per 8-0 e nel girone finale contro Svezia e Spagna.

Il 16 luglio 1950, nella gara decisiva, al Maracanã di Rio de Janeiro contro lo strafavorito Brasile supportato da 200.000 spettatori, fu un preciso assist di Ghiggia a propiziare il pareggio di Schiaffino. Con un superbo diagonale Ghiggia realizzò poi, su cross di Schiaffino, il goal della vittoria che valse agli uruguaiani il secondo titolo mondiale. Immediatamente dopo la partita, Ghiggia subì l’aggressione di alcuni facinorosi. Il calciatore rientrò in Uruguay in stampelle e con la gamba sinistra malconcia; rimase inattivo per quasi tutto l’anno.

La nazionale uruguaiana non giocò altre partite sino al Campionato Panamericano del 1952 a Santiago. Ghiggia – che nel frattempo aveva vinto un altro campionato con il Peñarol (1951) – fu sempre schierato. Squalificato per otto mesi per aver aggredito un arbitro che gli aveva annullato un gol, Ghiggia saltò il campionato nazionale 1953.

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Alcides Ghiggia in maglia giallo – rossa

Il ricordo della squalifica e il desiderio di mettersi in luce sulla platea internazionale lo spinsero ad accettare le offerte della Roma. Il 31 maggio 1953, durante un’assemblea dei soci al Teatro Sistina, il presidente della Roma Renato Sacerdoti annunciò ai tifosi l’acquisto dell’uruguaiano. Ghiggia esordì il 4 giugno successivo, in una vittoriosa amichevole con il Charlton. Coi giallorossi giocò otto campionati: miglior risultato: 3º posto nel 1954-55). Nel 1957-58 gli fu data la fascia di capitano, che mantenne fino all’inizio del 1959. Durante la permanenza romana non mancarono episodi legati alla “dolce vita”. Nel 1959 fu sorpreso in automobile con una quattordicenne che divenne madre in quell’ottobre. Denunciato dalla famiglia della ragazza, riconobbe il neonato, ma dovette scontare due mesi e venti giorni per atti osceni in luogo pubblico. Il che gli costò la fascia di capitano della Roma.

Nonostante i dubbi della stampa più critica, gli fu attribuito lo status di oriundo, e naturalizzato italiano. A più di trent’anni fu così convocato nella Nazionale italiana nelle qualificazioni ai Mondiali del 1958, ove ritrovò l’antico compagno di squadra Schiaffino, ormai trentaduenne e anch’egli naturalizzato. Ma stavolta il sodalizio tra i due anziani fuoriclasse non ebbe effetti positivi: l’Italia fallì per la prima e unica volta la qualificazione mondiale, perdendo a Belfast con l’Irlanda del Nord per 2-1, pur essendo sufficiente il pareggio.

Ghiggia giocò ancora un’amichevole nella nazionale italiana, a Roma contro la Spagna; nella stagione 1960-61, con la maglia della Roma, si ritrovò nuovamente accanto Schiaffino ed entrambi contribuirono alla conquista della Coppa delle Fiere. Nel 1962 passò al Milan, dove vinse (ma con sole 4 presenze) lo scudetto nel 1961-1962. Al termine di quella stagione decise di ritornare a Montevideo.

Negli ultimi anni da calciatore giocò nel Danubio FC della prima divisione uruguaiana sino a quarantadue anni, e si ritirò nel 1968. Nel 1980 allenò il Peñarol, dopo aver fatto per alcuni anni il croupier in una sala da gioco.

 

5)    JULIO CESARE ABBADIE

Julio César Abbadie Gismero, noto anche come Giulio Cesare Abbadie (San Ramón, 7 settembre 1930 – Montevideo, 16 luglio 2014, è stato un calciatore uruguaiano, di ruolo attaccante. Nato da madre spagnola e padre francese, esordì nel Peñarol nel 1950 realizzando 40 gol in 76 partite e vincendo 3 campionati uruguaiani.

Nel 1956 venne acquistato dal Genoa, che vinse la concorrenza del Milan e della Juventus. L’acquisto avvenne grazie anche a Arnaldo Piaggio, che pagò 36 milioni di lire al club e 10 al giocatore. Abbadie esordì in maglia rossoblù in amichevole contro l’Udinese (sconfitta per 3-2), partita nella quale si fece notare per due assist e procurandosi un rigore. Esordì invece in partite ufficiali il 16 settembre 1956 contro la Roma a Marassi nella prima giornata della Serie A 1956-1957 (1-1).

Nei suoi primi due campionati contribuì in maniera determinante a salvare il Genoa dalla retrocessione. Nel 1956-1957 l’ultima gara che disputò fu contro il Napoli; non avrebbe dovuto giocare a causa di uno stiramento, ma era tanto importante che venne fatto scendere lo stesso in campo, servendo a Mariolino Corso il passaggio per il gol-vittoria che valse la salvezza. Nel 1957-1958, invece, giocò come punta segnando 13 reti.

Una delle sue migliori partite fu il derby contro la Sampdoria del 1º novembre 1957, vinto dal Genoa per 3-1. Dopo l’iniziale vantaggio della Sampdoria, fu proprio Abbadie a realizzare gli assist che mandarono in rete Firotto, Corso e Leoni. L’ultima partita giocata con i rossoblu fu Genoa-Palermo del 29 maggio 1960 (1-1), per un totale di 95 presenze e 24 reti.

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Julio Cesar Abbadie è tra i giocatori più amati dalla tifoseria genoana

Nel 1960 passò al Lecco, sempre in Serie A, rimanendovi per quasi due anni prima di ritornare in patria, nuovamente al Peñarol, dove concluse la carriera, quasi quarantenne, nel 1969. Con la squadra uruguaiana vinse la Coppa Libertadores nel 1966 e, sempre nello stesso anno, la Coppa Intercontinentale contro il Real Madrid, oltre a 5 titoli nazionali. In totale nei due periodi di militanza giocò 170 partite e segnò 60 reti con la maglia giallonera.

Con la Nazionale uruguaiana Abbadie giocò 26 partite realizzando 14 gol. Fece parte della rosa dell’Uruguay che prese parte ai Mondiali del 1954 in Svizzera, dove raggiunse il 4º posto dopo le sconfitte in semifinale contro l’Ungheria (4-2 dopo i tempi supplementari), partita nella quale Abbadie non scese in campo, e nella finale per il 3º posto contro l’Austria (3-1). Durante la manifestazione disputò 4 partite segnando una doppietta nel 7-0 ottenuto contro la Scozia nella seconda partita del girone eliminatorio. Venne anche convocato per i Mondiali del 1966 in Inghilterra, ma fu costretto a rinunciare a causa di uno stiramento muscolare.

6)    DANIEL FONSECA

Daniel Fonseca Garis (Montevideo, 13 settembre 1969) è un procuratore sportivo ed ex calciatore uruguaiano, di ruolo attaccante. Iniziò la sua carriera agonistica con il Nacional Montevideo, con cui giocò da professionista due stagioni (dal 1988 al 1990) scendendo in campo complessivamente 14 volte e segnando tre reti. Dopo la conquista di uno scudetto, Fonseca fu ingaggiato dal Cagliari e si trasferì in Italia, paese di cui i suoi nonni erano originari e perciò riuscì a ottenere il passaporto italiano. Con i sardi rimase dal 1990 al 1992: impegnato principalmente come mezzapunta di sinistra,[ l’uruguaiano segnò 8 reti in 27 gare disputate nella prima stagione e 9 nella seconda disputando 23 gare.

Nell’estate del 1992 venne acquistato dal Napoli per 15 miliardi di lire più il cartellino di Vittorio Pusceddu. Con i partenopei segnò tutte e 5 le reti azzurre in una partita di Coppa UEFA (Valencia-Napoli 1-5) e in campionato realizzò 16 reti. Si mise in luce anche per un gesto poco elegante rivolto alla curva dei tifosi del Cagliari che lo fischiava perché era andato via contrariamente alle sue dichiarazioni.

Dopo un’altra stagione con 15 reti in 27 presenze passò alla Roma per 17,5 miliardi di lire più il cartellino di Benito Carbone valutato 7,5 miliardi di lire. Militò con i capitolini per tre stagioni (dal 1994 al 1997), realizzando 8 centri sia il primo anno che il secondo, mentre il terzo anno, in cui face reparto con Abel Balbo, si fermò a 4 gol.

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Fonseca alla Roma nella stagione 1994-1995

 

Nella stagione 1997-1998 passa alla Juventus per 9 miliardi di lire, con cui disputa 15 partite (con 4 gol). Con la Vecchia Signora Fonseca rimase altri tre anni, di cui uno solo da titolare (25 partite e 6 gol)  La sua avventura con i torinesi si concluse con la vittoria di uno scudetto e una Supercoppa italiana. Con gli argentini del River ebbe poco spazio e dopo due mesi decise di tornare prima al Nacional Montevideo (5 presenze e 2 gol) dove vince uno scudetto, e poi di nuovo in Italia, al Como. Nel corso della stagione, visto lo scarso utilizzo (2 presenze), decise di dare l’addio al calcio giocato.

Con la Nazionale uruguaiana, nelle cui fila vanta 30 presenze e 11 gol, vinse la Copa América nel 1995.

7)    FRANCISCO FEDULLO

Francisco Fedullo (Montevideo, 27 maggio 1905 – Montevideo, 26 gennaio 1963) è stato un calciatore uruguaiano naturalizzato italiano, di ruolo centrocampista. Fedullo fu il primo giocatore dell’Uruguay a tornare in Italia nella terra dei genitori, originari di Salerno.

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Fedullo, un altro uruguayano trapiantato a Bologna

Cresciuto calcisticamente nella squadra Institución Atlética Sud América  di Montevideo, squadra meglio conosciuta in Uruguay come Sud América, fu scoperto e portato in Italia nel 1930 per vestire la maglia del Bologna. In Emilia rimase per nove anni, fino al 1939, vincendo con la maglia rossoblu tre scudetti e due Coppa Mitropa.

Giocò due partite con la nazionale italiana, debuttandovi a Napoli il 14 febbraio 1932 nella vittoria contro la Svizzera per 3-0, gara valevole per la Coppa Internazionale in cui segnò una tripletta; giocò una sola altra gara in azzurro, il 12 febbraio 1933 contro il Belgio, vinta dall’Italia per 3-2. Riportò un secondo posto nel 1932, nella Coppa Internazionale. Alla fine del 1939 tornò in Uruguay, a terminare la carriera nella sua vecchia squadra, il Sud América.

8)    PAOLO MONTERO

Paolo Rónald Iglesias Montero (Montevideo, 3 settembre 1971) è un allenatore di calcio ed ex calciatore uruguaiano, di ruolo difensore, tecnico del Rosario Central.

Ha iniziato e terminato la sua carriera agonistica in patria, nelle file del Peñarol, ma gran parte di essa si è svolta in Italia, con le maglie dell’Atalanta prima e della Juventus poi: con quest’ultima ha vinto quattro campionati italiani, una Supercoppa UEFA e una Coppa Intercontinentale; con i bianconeri ha partecipato inoltre a tre finali di UEFA Champions League .

« Io non ho mai commesso falli cattivi, le mie reazioni sono istintive. Del resto sono latino […]. E per i latini il calcio è anche furbizia. »
(Paolo Montero, 2000)

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Montero (a sinistra) in azione in maglia juventina nel campionato di Serie A 1996-1997, in marcatura sull’attaccante fiorentino Batistuta

Difensore tecnicamente dotato, era in grado di dirigere la retroguardia con personalità e lucidità. Solitamente schierato come stopper o libero, all’occorrenza ha ricoperto — seppur molto controvoglia, arrivando financo a litigare coi suoi allenatori per la cosa — anche il ruolo di terzino sinistro. Dal carattere deciso, non lesinava le maniere forti e al limite del regolamento: nel corso della sua carriera in Serie A ha ricevuto 16 cartellini rossi, cifra che lo rende il primatista assoluto in questa particolare graduatoria.

9)    HECTOR PURICELLI

Héctor Puricelli Seña, meglio noto come Ettore Puricelli (Montevideo, 15 settembre 1916 – Roma, 14 maggio 2001), è stato un calciatore e allenatore di calcio uruguaiano naturalizzato italiano. Arrivato al Bologna negli anni trenta, fu presto soprannominato “testina d’oro”[2] per le sue ottime doti di colpitore di testa, che valsero ai felsinei lo scudetto del 1939 e del 1941, nonché la classifica cannonieri negli stessi due anni. Singolare il fatto che quando giocava in Uruguay non aveva mai segnato di testa, in quanto non aveva compagni di squadra che facessero dei cross. Ma quando approdò al Bologna scoprì questa specialità, complice il fatto di avere come ala Amedeo Biavati, in grado di calciare dei cross perfetti. Passato al Milan, giocò vari anni per i rossoneri, chiudendo la carriera al Legnano, dove giocò in Serie B per due stagioni, nelle quali si mise in luce segnando molte reti. Disputò anche una partita con la nazionale azzurra. Con il Bologna in cinque campionati ha segnato 80 reti in 133 partite, mentre con il Milan in quattro stagioni ha segnato 55 reti in 157 partite. Nelle due stagioni trascorse al Legnano ha segnato 25 reti in 38 partite.

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Puricelli allenatore del Foggia (1976)

Chiusa la carriera di giocatore, intraprese quella di allenatore, guidando molte squadre italiane. Iniziò come direttore tecnico del Legnano nel vittorioso campionato di Serie B 1950-1951, ultimo suo anno da calciatore, e nel successivo campionato di Serie A 1951-1952. Fra i suoi successi si ricorda lo scudetto del 1955 con il Milan, quando subentrò a Béla Guttman, la doppia promozione dalla C alla A ottenuta col Varese in soli tre anni negli anni sessanta e le varie salvezze ottenute nel Cagliari e nel Vicenza, che guidò in tre riprese fra il 1968 e il 1975. Ha allenato anche il Foggia, in serie B nel 1971-1972, poi in serie A nel 1976-1977 e 1977-1978 ed in Serie C nel 1979-1980, ottenendo il ritorno in Serie B della squadra dauna.

10) ALVARO RECOBA

Álvaro Alexander Recoba Rivero (Montevideo, 17 marzo 1976) è un ex calciatore uruguaiano, di ruolo attaccante.

È soprannominato El Chino per i tratti del volto simili a quelli orientali. È stato, per un periodo compreso tra il 2001 ed il 2003, il calciatore più pagato al mondo. Fantasista mancino, nella sua carriera si è distinto per l’ottimo tasso tecnico, sebbene non brillasse per continuità di rendimento. Disponeva di un tiro potente e preciso: tale caratteristica lo ha portato a realizzare alcuni gol da lunghe distanze (come in un Empoli-Inter del 1998, in cui segnò con un pallonetto da circa 50 metri) e, in alcuni casi, direttamente da calcio d’angolo. Era molto abile nei calci piazzati, soprattutto nelle punizioni.

Recoba iniziò la sua carriera da professionista nel 1993 con il Danubio, e vi restò fino al 1995, dove nell’ultima stagione segnò 14 gol in 20 presenze. L’anno seguente venne ceduto al Nacional Montevideo, dove collezionò 33 presenze e 30 gol. Nell’estate 1997 passò all’Inter per 7 miliardi di lire; al debutto, il 31 agosto, segnò una doppietta (dopo essere subentrato) con cui la squadra rimontò il Brescia da 0-1 a 2-1. In Coppa Italia fu decisivo contro il Foggia, mentre nella gara con l’Empoli del 25 gennaio 1998 fu autore di un gol da centrocampo (con un pallonetto).

Durante la seconda parte della stagione 1998-99, venne ceduto in prestito al Venezia contribuendo alla salvezza con 11 reti: 3 di queste furono segnate alla Fiorentina nella gara del 14 marzo, terminata 4-1 in favore dei lagunari. Rientrato in nerazzurro, il 23 agosto 2000 fallì il rigore che costò alla sua squadra l’eliminazione nei preliminari di Champions League. Il successivo coinvolgimento nello “scandalo passaporti” lo tenne fuori dai campi sino al dicembre 2001. Nel secondo periodo all’Inter confermò la propensione a realizzare gol di pregevole fattura, punto di forza al quale si accompagnò tuttavia la discontinuità.

L’ultima rete in nerazzurro fu segnata all’Empoli il 29 aprile 2007, direttamente da calcio d’angolo. Come più volte dichiarato da Moratti, l’uruguaiano fu il suo giocatore preferito. Il 31 agosto 2007, passa al Torino con la formula del prestito (il contratto con i nerazzurri sarebbe scaduto il 30 giugno 2008).] Nell’unica stagione in granata segna 3 gol, 2 dei quali alla Roma in coppa.

Il 5 settembre 2008 firma per il Panionios, dopo essere stato a lungo cercato dal Blackburn. Conclude la prima stagione con 19 presenze e 6 gol complessivi. A dicembre 2009 il giocatore, bersagliato dagli infortuni, ha rescisso consensualmente il contratto che lo legava al club greco. Il 24 dicembre 2009 viene annunciato il suo ingaggio da parte degli uruguaiani del Danubio. Il Chino torna così, a distanza di 14 anni, nella società che lo ha lanciato nel calcio professionistico. Un anno e mezzo più tardi, il 30 giugno 2011, dopo 31 partite disputate e 10 gol segnati, rescinde il contratto con il Danubio per tornare al Nacional. Nella Coppa Libertadores 2012 il Nacional esce già ai gironi e Recoba gioca 6 partite in tutto; nella Coppa Sudamericana 2012 esce al secondo turno.

Alvaro Recoba con il Nacional

Ha vestito la maglia dell’Uruguay per dodici anni, partecipando ai Mondiali 2002: nell’ultima gara del girone, segnò la rete del 3-3 contro il Senegal ma la sua squadra venne comunque eliminata. Lasciò la Nazionale dopo la Copa América 2007, nel quale la “Celeste” si classificò al quarto posto.

 

1948 – 49: LA SERIE B RITORNA A GIRONE UNICO LA SERIE C TORNA NAZIONALE

IL CALCIO E LA PRIMA GUERRA MONDIALE LA COPPA FEDERALE

Di Franco Astengo

 Nell’intento di ricostruire, per quanto possibile, la storia del calcio all’interno del nostro blog dedichiamo spazio a un evento probabilmente dimenticato dai più: la Coppa Federale che, nella stagione 1915 – 16, sostituì il Campionato interrotto al momento dell’entrata in guerra dell’Italia (nel dopoguerra lo scudetto fu poi assegnato al Genoa che si trovava in quel momento al comando del girone finale dell’Italia settentrionale).

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Il Genoa nell’edizione poi proclamata vincitrice del campionato 1914 – 15. Nella Coppa Federale 1915 -16 mister Garbutt non si trovava alla guida della squadra rossoblu in quanto arruolatosi volontario nell’esercito inglese come il fondatore della società rossoblu James Spensley che sarebbe caduto sul fronte occidentale.

All’entrata nella Prima guerra mondiale, la Figc dispose dunque frettolosamente la sospensione del campionato in corso, a cui mancava solo l’ultima giornata delle finali e la finalissima. Il provvedimento fu aspramente criticato in particolare dalla capolista Genoa, che si sentì defraudata della vittoria. La Federazione tuttavia rassicurò il sodalizio ligure che il torneo sarebbe stato regolarmente portato a termine non appena la guerra si sarebbe conclusa. Bloccatosi il fronte nelle trincee montane e dell’Isonzo, la situazione in cui ci si venne a trovare vedeva da un lato le società che, seppur avendo perso diversi giocatori arruolati nell’esercito, erano ancora in grado di schierare formazioni complete, mentre dall’altro lato c’era la Federazione, che avendo ancora il campionato del 1915, e il relativo titolo, in sospeso, non poteva certo organizzarne uno nuovo. La soluzione si trovò organizzando una Coppa Federale sul modello del campionato, ma senza titolo di Campione d’Italia in palio. Al momento dell’istituzione del torneo, gli Organi Federali si aspettavano una massiccia adesione dalle squadre affiliate. Tuttavia, soltanto 15 squadre risposero all’appello. L’assenza di maggior scalpore fu quella della Pro Vercelli. La Cremonese, inizialmente iscritta e inserita nel girone con Modena e Bologna, chiese ed ottenne l’esonero dalla partecipazione adducendo come motivo l’alto costo previsto delle trasferte in Emilia. Fu quindi rimpiazzata dall’Audax Modena. Fece discutere poi la decisione unilaterale della Federazione di escludere dal torneo le squadre del Centrosud, le quali affidarono alla Gazzetta dello Sport la loro vibrante protesta, a dimostrazione che questa Coppa era sentita come un vero campionato. Data la pericolosa collocazione geografica, ci fu anche l’assenza delle compagini venete.

La coppa si sarebbe svolta, sul modello dei campionati dell’epoca, su tornei regionali seguiti da una fase nazionale. Furono istituiti cinque gironi, uno per Regione tranne il Piemonte che ne ebbe due. Le vincitrici dei raggruppamenti avrebbero costituito la poule finale per l’assegnazione della coppa. I dati qui raccolti sono riportati dall’opera Il calcio e la Grande Guerra, 1916 di Carlo Fontanelli, il quale li ha a sua volta recuperati dalle pubblicazioni dell’epoca della rivista Il Football.

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Una formazione rossonera del 1915: in piedi Sala, Barbieri, Pizzi; inginocchiati Scarioni, Soldera, Lovati; a terra Morandi, Ferrario, Brevedan, Van Hege, Bozzi.

Eliminatorie regionali

Girone A: Milan 8, US Milanese 2, Internazionale 2

Girone B: Juventus 8 Torino 2 US Torinese 2

Girone C: Casale 4 US Vercellese 4 Valenzana 2

Girone D: Modena 8 Bologna 4 Audax Modena 0

Girone E : Genoa 6 Andrea Doria 5 Savona 1

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19 dicembre 1915, campo di via Goldoni. Inter – Milan 0-3

Le eliminatorie riscossero un grande successo di pubblico, con numerosi derby assai accesi e sentiti. Grande attesa vi era dunque per il girone finale, in programma fra febbraio ed aprile. Subito si ebbe, tuttavia, il problema del Casale che, per gravissimi problemi finanziari, dovette ritirarsi dopo una sola gara in cui aveva perso 2-0 contro la Juve. Tutti i restanti match del Casale non furono disputati e alle avversarie dei casalesi, inclusa la Juventus, vennero automaticamente assegnate vittorie a tavolino. Il protrarsi della decisione su un ricorso presentato dall’Andrea Doria nei confronti del Genoa, in seguito respinto, causò, inoltre, la posticipazione di alcune partite dei rossoblù. Il raggruppamento fu estremamente equilibrato, e solo all’ultima giornata il Milan riuscì ad aggiudicarsi l’ambita coppa, battendo in casa i Grifoni virtuali Campioni d’Italia in carica. Determinante per il successo rossonero fu il figliol prodigo Aldo  Cevenini, mentre il super bomber Louis Van Hege dovette lasciare a metà stagione, richiamato al fronte in Belgio. Questa vittoria fu il canto del cigno per la società rossonera, che uscirà totalmente ridimensionata dal conflitto, iniziando un lunghissimo periodo buio che si concluderà solo al termine di una nuova guerra, nel 1945. Per quanto riguarda la Federazione, l’aggravarsi delle funeste notizie dal fronte, sconsigliarono di ripresentare la manifestazione l’annata successiva. I Comitati Regionali misero in piedi vari tornei locali, sempre più raccogliticci, addirittura a porte chiuse dopo la rotta di Caporetto. Solo nel 1919, con la vittoria, ritornerà il calcio a livello nazionale.

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La Juventus schierata nella Coppa Federale

Classifica finale

Coppa Federale 1915-16 Pt G V N P GF GS
1.  Milan 11 8 5 1 2 13 7
2.  Juventus 10 8 4 2 2 13 8
2.  Modena 10 8 4 2 2 13 10
4.  Genoa 9 8 4 1 3 15 13
5.  Casale 0 8 0 0 8 0 16

Nei decenni a seguire questa coppa, pur essendo tradizionalmente riportata con una voce specifica negli albi d’oro del campionato, non venne mai considerata assimilabile ad un vero campionato italiano.

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Polemiche analoghe interessarono tempo dopo un altro torneo bellico nazionale, il Campionato Alta Italia 1944, che però, a differenza della Coppa Federale ebbe a pieno titolo la qualifica di scudetto sin dal momento della sua istituzione, salvo poi essere disconosciuto probabilmente perché vinto a sorpresa dalla squadra dei vigili del fuoco di La Spezia (lo Spezia “mascherato” per far sfuggire ai suoi giocatori gli obblighi militar).La società spezzina poi in occasione del proprio centenario (2002) ottenne dalla Federazione la possibilità di apporre sulla maglia un piccolo distintivo tricolore che ricordasse quell’affermazione. Il dibattito sul prestigio della Coppa Federale si riaccese agli inizi degli anni Settanta, allorché la società di via Turati, a quota nove scudetti, incappò in una serie di brucianti secondi posti in campionato, conditi da aspre polemiche. Giornalisti vicini ai rossoneri cominciarono a chiedere di riconsiderare il valore di quella competizione, auspicando per lo meno l’assegnazione in anticipo ai milanesi dell’agognata stella d’oro simboleggiante la vittoria di dieci scudetti. Nonostante ciò l’iniziativa, già portata avanti con poca convinzione dai suoi stessi ideatori, non fu mai presa in considerazione dalla Figc.

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 Savona FBC: Falco, Sabaini, Saettone, Roletti, Romano, Veglia, Perlo, Ghigliano, Cuttin, Roggero, Ciarlo I.

Nostre ulteriori ricerche ci hanno permesso di reperire alcune delle formazioni schierate dalle squadre partecipanti:

Milan: Barbieri, M. Sala, Pizzi, Cazzaniga, Soldera, Greppi, Morandi, Avanzini, Cevenini I, Van Hage, Mazzoni (Gambuti, Ferrario, Guarnieri)

Internazionale: Cameroni, Peterly, Donà, Engler, Carcano, Lazoli, Bronzini, Agradi, Aebi, Kintsch, Fabbri (Tremolada, Gussoni, Asti, Rossi)

US Milanese: Soffientini, De Simoni, Carmelo,. Ghezzi, D’Agradi, Bruciamonti, Giustacchini, Sgravati, Bosi, Boiocchi, Ugazio (Balbo, Cozzi, Zerbi)

Modena: Borghetti Secchi, Lunghi, Zanussi, Roberts, Ara, Forlivesi,Perin, Fresia, Maselli, Rampini II ( il Modena usufruì dell’apporto di alcuni giocatori della Pro Vercelli che aveva rinunciato a dipsutare la Coppa)

Juventus: Terzi, Novo, Pirovano, Omodei, Monti, Bigatto, Berganti, Della Casa, Reynaudi, Laviosa, Pavan,

Andrea Doria: Casalino, Santinoli, Bedogni, Bagliatto, Passano, Bisio,  Bodrato, Macaggi, Bagnasco, Olcese, Delfino (Ruschetti, Capris, Griffini)

Genoa: Costa, De Nardo, Ferrari, Capelli, Berardo, Traverso, Bergamino, Santamaria, Brezzi, Bassi, Walsingham (Crocco, Baglietti)

Savona. Sguerso, Barabino, Repetto, Capelli, Capello, Colombo, Hurny, Peloso, Grillo, Brunoldi, Truffi  Guglielmi, Roletti, Ghigliano, Gavoglio)

1958: DOPO L’ELIMINAZIONE DAL MONDIALE LA RIPRESA DELLA NAZIONALE ITALIANA

ANNI ’10: SAVONA, VELOCE VADO E SPERANZA PRIME SQUADRE SAVONESI

19 MARZO 1946: IL GIORNO DI COPPI E DELLA PIU’ GRANDE IMPRESA NELLA STORIA DELL’ITALIA SPORTIVA

Per una felice coincidenza il ricordo della grande impresa di Fausto Coppi nella “Sanremo ‘46” si collega direttamente a questa altra grande impresa compiuta nell’edizione di quest’anno da Vincenzo Nibali, capace di riportare il ciclismo italiano a quel primato che storicamente gli è appartenuto per tanti anni: da Girardengo a Binda, Guerra, Bartali, Coppi, Baldini, Nencini, Adorni, Dancelli, Motta, Gimondi, Saronni, Francesco Moser, Bugno, Pantani soltanto per ricordare qualche nome nella storia di uno sport magnifico che vogliamo continuare ad amare.

di FRANCO ASTENGO

19 marzo 1946, dopo due anni di interruzione a causa della tragedia della guerra, si torna a correre la Milano – Sanremo, la “corsa al sole”, la “classicissima” di primavera.

In quel giorno Fausto Coppi compie quella che pensiamo possa essere definita la più grande impresa nella storia dell’Italia sportiva. Sicuramente questa definizione, certo soggettiva, potrà essere contestata: tanti sono gli avvenimenti di grandissimo valore ed importanza che hanno colpito l’immaginario delle folle nel corso di oltre un secolo di attività nelle varie discipline.

Si affacciano alla memoria eventi più diversi: Olimpiadi, Campionati del Mondo di tutte le discipline, partite di calcio, corse ciclistiche, gare di atletica, da Dorando Pietri nella maratona di Londra nel 1908 fino a Sofia Goggia nelle olimpiadi coreane 2018; soprattutto, rispetto all’insieme della Storia d’Italia e nel rapporto tra questa e lo sport ci sarà chi metterà di fronte alla nostra scelta l’impresa del 1948, quella di Bartali al Tour, quando l’Italia pareva sull’orlo di una crisi irreversibile a causa dell’attentato a Togliatti e il successo dell’atleta toscano servì a stemperare gli animi.

La scelta del 19 marzo 1946 è dovuta però alla convinzione, proprio al riguardo della storia del nostro Paese, che si trattò di un evento capace  di segnare un’epoca. Fu in quel giorno e grazie all’impresa di Coppi che gli italiani si resero conto di essere usciti definitivamente dal tunnel della guerra, dell’invasione nazista, delle stragi e delle deportazioni: quella volta, sulle strade della Riviera, tutti si buttarono alle spalle il recente drammatico passato e riuscirono collettivamente a gioire ancora per un’impresa sportiva.

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La Bianchi al gran completo alla partenza della “classicissima” (la didascalia inverte i due fratelli Coppi: Serse è il quarto da destra e Fausto il quinto)

Ecco: al di là del valore (enorme) del gesto atletico quello fu  il giorno in cui la guerra risultò definitivamente terminata, apparteneva al passato, ci si poteva permettere di appassionarsi allo sport, come al cinema, alla politica (che già si era data la scadenza del 2 giugno: referendum e elezioni per l’Assemblea Costituente), alla musica, al teatro, alla letteratura e a tante altre delle cose che ci riempiono l’esistenza oltre alla fatica del lavoro e alla cura della famiglia e della quotidianità: al di fuori dall’orrore della guerra che aveva devastato il mondo per sei lunghi anni.

Insomma: quel 19 marzo 1946 italiane e italiani tornarono alla vita.

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La “rosea” del 20 marzo 1946

Tutto questo ben oltre alla realtà, immensa sportivamente parlando, dell’impresa compiuta da Fausto Coppi.

Sono le 7,30 quando il giornalista francese Yves Mazan, figlio di quel Lucien Mazan (Petit Breton) che nel 1907 aveva vinto la prima edizione, dà il via alla corsa.

Dopo neanche sei chilometri si verifica incredibilmente l’azione decisiva. Attacca il francese Teisseire e con lui vanno in fuga altri nove corridori. Otto sono figure di secondo piano: Tarchini, Bardelli, Barisone, Mutti, Valdisolo, Casellato, Ronconi e Nicolosi. A questi però si aggancia Coppi, secondo il piano studiato a tavolino con Cavanna.

Appena passata Binasco, Teisseire rilancia l’azione e con lui restano soltanto in quattro : Coppi, Mutti, Bardelli e Casellato. A Novi Ligure i 5 hanno un vantaggio di 8’; ad Ovada, ai piedi del Turchino (a quei tempi un’asperità ragguardevole soprattutto per le condizioni delle strade) Teisseire rilancia l’azione e resta solo con Coppi.

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Fausto Coppi in piena azione in quel 19 marzo 1946

A tre chilometri dalla vetta del Turchino Coppi stacca il francese che però resiste tenacemente: al tunnel Fausto ha un vantaggio di soli 15- 20”. Il gruppo passa a 7’50”. Nella discesa su Voltri Coppi compie il suo capolavoro: al passaggio nella delegazione genovese il suo vantaggio è salito a 3’.

Gli oltre 100 chilometri da percorrere in Riviera rappresentano una vera e propria apoteosi.

A Savona, sede del rifornimento che avveniva tra Corso Mazzini e Corso Colombo, il distacco è salito a 7 minuti, mentre a 9’10” passò un terzetto composto da Camellini, Ortelli e Marangoni che stanno tentando un improbabile contrattacco.

Sul traguardo di Sanremo, in via Roma, il distacco tra Coppi e Teisseire sarà di 14’ mentre il gruppo arriverà a 18’ 30”. L’occasione consentirà a Nicolò Carosio di pronunciare una delle sua frasi più celebri (come il “quasi rete”).

Infatti il celebre radiocronista esclamò: “Ordine d’arrivo: Primo Fausto Coppi, in attesa degli altri concorrenti trasmettiamo musica da ballo”.

Questo l’ordine d’arrivo completo, ricordando ancora che al 41° posto si piazzò il savonese Carlin Rebella (squadra Olmo) già campione d’Italia dilettanti nel 1942 e, in seguito, per tanti anni “ciclista” (nel senso di riparatore di biciclette) in via XX Settembre, con il laboratorio poco distante da quello del suo più anziano collega Poloni, già protagonista nel ciclismo degli anni ’20 sia al Giro d’Italia, sia alla Milano – Sanremo e alle altre grandi corse.

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L’arrivo trionfale di Fausto Coppi in via Roma

Ordine d’arrivo Milano – Sanremo 1946: 1) Fausto Coppi, che ha percorso 293 km (150 da solo) alle media di 35,950; 2) Tesseire a 14’; 3) Rocca a 18’30”; 4) Bartali, 5) Canavesi, 6) Ortelli, 7) Leoni, 8) Bailo, 9) Crippa, 10) Croci – Torti (uno svizzero di origini leginesi), 11) Logli, 12) Zanazzi; 13) Casola a 18’38”, 14) Fazio, 15) Marangoni, 16) Ronconi, 17) Lelli, 18) Servadei a 20’00”; 19) Motta, 20) Cottur, 21) Camellini, 22) Sergio Maggini, 23) Khun, 24 Volp,i 25) Introzzi, 26) Bresci, 27) Locatelli, 28) Baito, 29) De Benedetti, 30) Destefanis a 26’00”; 31) Colombo a 28’00”, 32 Cecchi (lo “scopino di Monsummano”), 33) Casellato, 34) Maag, 35) Serse Coppi a 32’00”; 36) Zanazzi, 37) Moscardini, 38) Pugnaloni, 39) Ballarino, 40 Pedrali, 41) Carlin Rebella, 42) Ferrari, 43) Antolini, 44) Martini, 45) Malabrocca (la celebre “maglia nera” del Giro d’Italia), 46) Bardelli, 47) Magni 48), Coppini 49), Toccaceli, 50) Tacca, 51) Sala, 52) Landi, 53) Dragomanni, 54) Giauna, 55) Costa, 56) Omari, 57) Carraro, 58) Di Leo, 59) Pasquini, 60) Rubiani, 61) Amisano, 62) Fellini, 63 e ultimo quel Nicolosi che pure alla partenza aveva trovato il coraggio di andare in fuga con Coppi.

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 Luigi Malabrocca, mitica “maglia nera” del Giro d’Italia

 Per offrire ai nostri lettori un panorama completo delle grandi imprese compiute nella storia dello sport italiano pubblichiamo di seguito questa accurata ricerca

 LE ALTRE GRANDI IMPRESE

DA ZENO COLO’ A ALBERTO
TOMBA A NINO BENVENUTI E FEDERICA PELLEGRINI
Di LUCIANO ANGELINI

Lo Sport, non a caso scritto con la maiuscola, come si diceva ed era bello usare un tempo, ha la sua ragione di essere attraverso imprese capaci di suscitare e trasmettere passioni, emozioni, pathos. Coinvolgere ed entusiasmare. La data del 14 marzo 1947, ci riporta ad uno dei capitoli più coinvolgenti della storia del ciclismo: la trionfale galoppata di Fausto Coppi in una indimenticabile e coinvolgente Milano-Sanremo sulle strade di casa nostra. Ma è anche l’occasione per offrire un doveroso ingrandimento di vittorie, record, medaglie di grandi atleti italiani entrati nella leggenda. dello Sport italiano. Una incompleta sfilata di campioni, ciascuno capace di fare vivere agli sportivi e al paese, in tempi lontani tra loro e in condizioni del tutto diverse, momenti di autentica magia, coinvolgimento e senso di appartenenza. Grandi successi, grandi imprese spesso povere di immagini (ah, se ci fosse stata la tv, a seguire in diretta il grande Fausto sul Capo Berta, sullo Stelvio, sul Pordoi, sul Tourmalet, sull’Aubisque e sull’Izoard o nella galoppata mondiale a Lugano), ma raccontate e diventate epiche grazie alle firme più prestigiose del giornalismo della carta stampata, una razza purtroppo in via di estinzione.

Non a caso apre la rassegna il discobolo Adolfo Consolini, considerato a ragion veduta il più forte atleta italiano di tutti i tempi. Il 7 agosto 1948, Consolini conquistò l’oro alle Olimpiadi di Londra nel lancio del disco. Per l’Italia, uscita a pezzi dalla seconda guerra mondiale, una vittoria di grande prestigio e un prezioso viatico per il prestigio e la fiducia del paese. Il suo medagliere è ricchissimo di record, titoli europei e italiani. Solo gli eventi bellici gli rubarono i trionfi che avrebbe meritato. La Gazzetta dello Sport gli dedicò la prima pagina con un titolo a 9 colonne (oggi nei quotidiani, oltre alle copie, si è ristretto anche il colonnaggio). In quell’edizione dei Giochi  emersero, fino a diventare leggenda, la “mammina volante” Fanny Blankers-Koen, vincitrice di quattro ori nei 100, 200, 80 ostacoli e staffetta 4X100, e il cecoslovacco Emil Zatopek, ribattezzato la “locomotiva umana”, vincitore dei 10mila.

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Adolfo Consolini in azione alle Olimpiadi di Roma 1960, quando promunciò il giuramento olimpico a nome di tutti gli atleti partecipanti

!6 febbraio 1952. E’ il giorno dello storico oro di Zeno Colò nella discesa libera alle Olimpiadi di Oslo. Due anni prima aveva vinto l’oro al Mondiale di Aspen. Entrambe le vittorie possono essere considerate storiche (con tutto il rispetto per la straordinaria impresa di Sofia Goggia, alle Olimpiadi di Pyengchang in Sud Corea, prima donna italiana a vincere l’oro, e di Giuliana Minuzzo vincitrice del bronzo in discesa nel ’52 ad Oslo). L’abetonese fu il primo italiano a vincere la discesa libera ai mondiali, e anche il primo campione mondiale della storia nello slalom gigante. Colò con la sua “posizione ad uovo alto” e, non dimentichiamolo, con gli sci di legno (un’altra era geologica rispetto ai materiali) di oggi fu il precursore della posizione che ancora oggi tengono i discesisti per ridurre l’attrito aerodinamico. Da ricordare che Colò aveva 27 anni quando, nel 1947, sul Piccolo Cervino, stabilì il nuovo record del mondo sul chilometro lanciato con circa 160 km orari.

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Zeno Colò nel grande giorno di Oslo

Olimpiade di Roma, Italia in piedi e inchiodata davanti alla tv il 3 settembre 1960 per la finale dei 200 metri. In pista c’è Livio Berruti, 21 anni, novarese, pupillo del c.t. e guru dell’atletica Giorgio Oberweger, ex discobolo dalla tecnica raffinata e specialista nei 110 ostacoli. La telecronaca di Paolo Rosi, giornalista a tutto tondo, dall’atletica al pugilato, è lucida e appassionante. In curva l’azzurro è accompagnato da un volo di colombi. La progressione non lascia scampo: l’oro è suo con il tempo di 20”5. Come premio per la vittoria, ricevette 1 milione e 200 mila lire e una Fiat 500. Sulla Gazzetta dello Sport la sua vittoria si sposa al trionfo del Settebello (così ribattezzato da Nicolò Carosio, a Londra ’48) di Ambron, D’Altrui, Lavoratori, Lonzi, Pizzo, Parmegiani, allenato  da

Andres Zolyomy. E’ anche l’Olimpiade dell’americanina Wilma Rudolph trionfatrice nelle prove di velocità con tre ori (100, 200, 4X100). Olimpiade tinta di rosa per una presunta liaison, mai smentita, tra la Rudolph e Berruti.

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Wilma Rudolph e Livio Berruti, tre medaglie d’oro in due

Uno scricciolo chiamato Novella Calligaris, il 30 agosto 1972 entusiasmò e divenne il simbolo dell’Italia del nuoto di quegli anni e degli anni a venire, fino all’irrompere di Federica Pellegrini. Novella ci riuscì conquistando la medaglia d’argento nei 400 stile libero ai Giochi di Monaco, quelli macchiati dalla strage degli atleti israeliani ad opera di un commando palestinese. La Calligaris sorprese il mondo per come scivolava sull’acqua e teneva testa alle gigantesse americane, australiane e tedesche. Solo l’aussi Shane Gould, due spalle da far paura, toccò la piastra prima di lei. Ma l’impresa resta memorabile. Il suo oro e record mondiale negli 800 al Mondiale1973 di Belgrado sono gemme della sua luminosa carriera. Un’impresa straordinaria, avvincente e carica di pathos la radiocronaca di Alfredo Provenzali, indimenticabile radiocronista capace di raccontare con grandissima qualità ogni avvenimento sportivo: dal nuoto al ciclismo (testimone del Tour e del Giro in sella ad una moto), dalla pallanuoto al calcio, sempre tra i protagonisti nella straordinaria squadra di Paolo Valenti, Aldo Bortoluzzi, Enrico Ameri e Sandro Ciotti.

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Novella Calligaris felice all’arrivo di una gara vittoriosa

17 aprile 1967. Serata storica per il pugilato italiano. Nino Benvenuti, triestinooro a Roma ’60, protagonista in Italia di sfide memorabili con Mazzinghi, va all’assalto del titolo mondiale dei pesi medi contro Emil Griffith, il picchiatore che pochi mesi prima aveva ucciso sul ring Benny Paret. La sfida è nel tempio del pugilato: il Madison Square Garden. L’Italia è “appesa” alla radio (inutili gli appelli per aver una diretta tv o almeno una differita) per ascoltare la radiocronaca di Paolo Valenti. Il match è drammatico. Al secondo round Griffith colpito da un gancio va al tappeto e viene contato. Nella quarta ripresa è Benvenuti ad andare knock down. Decisivi gli ultimi cinque round: Benvenuti la fa da dominatore al centro del ring con la sua scherma e l’agile gioco di gambe. La corona mondiale è sua. Un delirio. La boxe cattiva e violenta di Carlos Monzon verrà qualche anno dopo. Ma il mito di Nino Benvenuti resta indelebile.

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Nino Benvenuti nel suo classico stile

12 settembre 1979. E’ il giorno del record mondiale (19”72) di Pietro Mennea, sui 200 metri, alle Universiadi di Messico City. Le vittorie di Mennea, soprannominato “la freccia del Sud”, allievo prediletto di Carlo Vittori, hanno dato lustro all’intero movimento dell’atletica italiana. La più bella e prestigiosa, ancorché velata dal boicottaggio degli atleti Usa, la ottenne il 28 luglio 1980 alle Olimpiadi di Mosca con la conquista dell’oro sui 200 metri davanti all’inglese Allan Wells. “Mennea, che gioia!” titolò la Gazzetta dello Sport. La telecronaca di Paolo Rosi, cantore dell’atletica, fu seguita da milioni di sportivi italiani. Mennea, atleta pulito in un mondo spesso inquinato dall’uso di anabolizzanti e il veleno dell’Epo (tre casi per tutti: Ben Johnson, oro e record mondiale con 9”79 a Seul 1988, squalificato tre giorni dopo per doping; Marion Jones, regina della velocità, positiva a Sydney 2000; Alex Schwazer, oro olimpico a Pechino 2008, fermato per doping alla vigilia delle Olimpiadi di Londra 2012), va ricordato come bandiera della lotta al doping.

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Pietro Mennea sul filo di lana a Mosca 1980

Mosca ’80 va ricordata anche per un altro oro luccicante e prestigioso. Lo conquista Sara Simeoni, prima donna italiana a superare i 2 metri. L’impresa le riesce il 2 agosto 1978 a Brescia saltando 2,01, una prestazione che la proietta sul tetto del mondo. La Simeoni, nata a Rivoli Veronese il 19 aprile 1953, mancata danzatrice classica, è da considerare la più prestigiosa atleta italiana della storia. Il suo palmarès parla da solo: un oro e due argenti alle Olimpiadi (Montreal ’76, Los Angeles ’84); un oro e due bronzi agli Europei; 4 ori agli Europei indoor; 2 ori, un argento e due bronzi alle Universiadi; 2 ori ai Giochi del Mediterraneo. Quattordici volte campionessa italiana, ha detenuto il primato italiano per 36 anni. Nel 2014 è stata eletta “Atleta del Centenario insieme ad Alberto Tomba in occasione dei 100 anni del Coni.

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Sara Simeoni e i suoi due metri

Se Fausto Coppi richiamava migliaia di appassionati lungo le strade della grandi classiche, sui tornanti delle Alpi, sulle Dolomiti e sui Pirenei, ad Alberto Tomba, oro olimpico a Calgary e Albertville (un nome una garanzia) va riconosciuto il merito di essere l’unico sciatore italiano capace di incantare il mondo intero e di mobilitare davanti alla tv milioni di persone di ogni età e passione sportiva. Un fenomeno di massa non usuale per gli sport invernali. Ma Tomba era capace di imprese straordinarie, vittorie schiaccianti e recuperi esaltanti, passava come una furia tra i paletti, aggressivo e sfrontato, Un guascone sugli sci. E diventò subito “Tomba la bomba”. Il  D-day si materializza il 25 febbraio 1988 alle Olimpiadi di Calgary. In Italia l’Albertone è ormai un mito, una star. Gli appuntamenti in tv per le sue prove in slalom toccano ascolti clamorosi. Per lui si ferma anche il Festival di Sanremo con il pubblico in piedi nelle due serate della rassegna canora per assistere alla diretta delle sue due discese d’oro in gigante e speciale.

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Alberto Tomba

Il memorandum delle grandi imprese individuali, seppur soggettivo e quindi rivedibile, non potrebbe aver migliore conclusione (e protagonista) dell’immensa Federica Pellegrini, la più grande, bella e vincente nella storia del nuoto italiano e mondiale. La “regina dei 200 stile libero”, senza se e senza ma. L’atleta capace di oscurare e cancellare tutte le campionesse apparse nelle corsie del mondo natatorio: Camelia Pontec, che la battè ad Atene; l’eterna rivale (anche in amore) Laure Manaudau; la slovena Sara Isakovic, argento a Pechino; la polivalente svedese Sarah Sjostrom tanto per interderci. Tante vittorie, tanti record del mondo (11), tanti titoli italiani (115 calcolati per difetto), europei (7 almeno fin qui), mondiali (5), più gli ori (2) ai Giochi del Mediterraneo e alle Universiadi, sorvolando sui 39 argenti e un contorno di medaglie di bronzo di cui avrebbe fatto a meno, visto che su ogni blocco di partenza c’è sempre stato come obiettivo il podio più alto e magari il record in prospettiva. Ma la vittoria più bella, esaltante, sofferta, voluta con tutte le forze fisiche e nervose, la determinazione, le fatiche di mesi e mesi di allenamenti ci porta al 13 agosto 2008, Olimpiade di Pechino, quattro anni dopo la delusione di Londra, otto anni dopo l’argento di Atene, a soli 16 anni. La sua ultima vasca a Pechino, come per altre centinaia di altre volte, è apparsa come un volo sull’acqua, sospinta e accompagnata dall’amore e dalla passione anche di chi non è mai andato in una piscina. Un trionfo con il sigillo del record del mondo (1’54”82). Un’impresa straordinaria, fortemente attesa e voluta.

Per fortuna c’è FEDE”, titolò il giorno dopo la “Gazzetta dello Sport”. Appunto.

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Federica Pellegrini

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PORTIERI E GOAL: BRIGNOLI STAR MA CON MARTINI E ARESTI SAVONA HA UN POSTO SPECIALE

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