QUANDO MIO PADRE MI SPIEGO’ IL GIOCO DEL CALCIO CON LE BUCCE DI UN’ARANCIA

di FRANCO ASTENGO

Nella sera d’inverno la grande cucina della casa di Corso Vittorio Veneto era poco illuminata, le disponibilità economiche del tempo consentivano soltanto una lampadina appesa lassù verso un soffitto molto alto. La cena era terminata da poco, mia madre era già affaccendata attorno alla sua “Singer” (molto moderna lei, una vera professionista) forse per rifinire qualcosa di particolare da portare all’indomani in sartoria, e ascoltava alla radio Achille Togliani e Nilla Pizzi. Non perdeva un colpo, spostandosi con abilità tra “Rete Rossa” e “Rete Azzurra”, da una trasmissione di canzoni all’altra, lasciando noi con il becco asciutto rispetto al giornale radio, che forse mio padre avrebbe ascoltato volentieri.

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Il Palazzo di Corso Vittorio Veneto 2, noi abitavamo al quarto piano interno 20

La televisione non c’era, ma non in casa nostra: non c’era proprio in tutta l’Italia e sarebbe arrivata tre – quattro anni dopo.

Mio padre prese la buccia di un’arancia appena consumata e, con un gesto che mi pare di ricordare come un poco solenne, la spezzò in tanti piccoli pezzi, 11 contai dopo, e li dispose sul tavolo.

«Ecco, vedi: il portiere, come sai già, sta naturalmente in porta; i terzini larghi verso l’esterno del campo, in mezzo alla difesa il centro-mediano, ai suoi fianchi i due mediani laterali (a destra e a sinistra) che con le due mezze ali formano il quadrilatero di centro-campo; all’attacco le ali, anche loro all’estremità del campo come i terzini («Voglio vedere le ali con le scarpe sporche di gesso», sentii urlare, qualche anno dopo, da Dante Cicerin – ovviamente in dialetto – quando si trattò di mettere in pratica quelle disposizioni tattiche) e il centroavanti schierato là, il più vicino possibile alla porta avversaria, per cercare di tirare in porta».

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Ecco lo schema illustrato con le bucce d’arancia

 Avevo già visto il calcio giocato sul campo in Corso Ricci, alle Traversine di Vado e, per due volte, a Marassi, là dove tutto era cominciato ed il Genoa immaginifico di sir James Spensley aveva vinto i nove scudetti dell’epopea pionieristica del calcio italiano.  Mio fratello guardava meravigliato ma era ancora troppo piccolo, dopo qualche anno avrebbe insistito a seguire “i grandi” relegato per forza tra i pali, dove poi si rivelò, nelle nostre categorie, un ottimo portiere. Nessuno, quella sera, avrebbe scommesso che quel bambino biondo avrebbe, un giorno, frequentato le Olimpiadi.

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Un’immagine del campo di Corso Ricci, primo luogo di frequentazione per il “calcio vero”

Ebbene, quella sera mio padre consapevolmente aveva avviato una sua operazione di “educazione sentimentale” verso il gioco del calcio, che tanta parte avrebbe poi avuto nella mia vita: aveva cercato di rendermi cosciente di ciò che accadeva in campo e che, fino a quel momento, avevo seguito così, guardando semplicemente l’andamento della palla. Un passo in avanti nella conoscenza della vita: come imparare ad andare in bicicletta (una cosa non semplice, all’inizio…) o nuotare (quello invece mi riuscì benissimo, con una facilità sorprendente).

Tenni quel segreto per me, non lo rivelai ai miei compagni di scuola, era un dato di superiorità: non feci, insomma, come per la politica quando dopo aver ascoltato alla società delle Fornaci un comizio di Angiola Minella contro la CED l’indomani mattina lo ripetei, pari pari, ai miei spauriti compagni di classe. Anche quello fu, però, un momento importante di educazione sentimentale.

 Mio padre mi aveva così spalancato le porte alla conoscenza del calcio vero ed io in quei minuscoli pezzi di bucce d’arancia vedevo le grandi squadre dell’epoca: il Wunderteam austriaco, l’Arancysipat ungherese (per la quale facevo un tifo sfrenato), i maestri inglesi.

Questa era l’altra caratteristica di quell’educazione: il calcio non aveva confini e non c’erano nemici, soltanto avversari in quel momento che, chissà, un giorno avremmo potuto trovare come compagni di squadra.

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Le “Traversine” a Vado, una vera fossa dei leoni

In questo mio padre era davvero cosmopolita, non semplicemente internazionalista come del resto indicava la sua forte appartenenza politica di operaio comunista e non vedeva il calcio come un fatto di cortile o di tifo paesano.

Aveva visto crescere il gioco del calcio in Italia, diventare fenomeno di massa: ricordava Ardissone, capitano delle bianche casacche vercellesi sette volte campioni d’Italia, rimboccarsi le maniche prima di cominciare la partita, come a dire agli avversari “attenzione che vi stiamo aspettando”; aveva assistito alla prima finale di Coppa Italia tra Vado e Udinese, sul campo di Leo, conclusasi con un goal di Levratto che, secondo le cronache, avrebbe strappato la rete.

Lui smitizzava tutto e sosteneva, credo a ragione, che la rete fosse già strappata prima della partita. Un esempio di questa sua visione del calcio si verificò al momento della disputa del campionato mondiale del 1934 in Italia. A Genova era in programma Spagna-Brasile: quella fu la prima esibizione dei carioca in Europa. Uruguay e Argentina avevano già attraversato l’Atlantico in occasione delle Olimpiadi di Parigi del 1924 e di Amsterdam del 1928. Mio padre inforcò la bicicletta, raggiunse Marassi, acquistò il biglietto e osservò la partita.

            Vinsero le furie rosse 3-1: i brasiliani non tiravano in porta, pensavano si dovesse “accompagnare” il pallone fin dentro la rete.

            Lui ne trasse il ricordo delle riserve brasiliane intente a palleggiare tra il primo ed il secondo tempo: a suo giudizio il più bello spettacolo calcistico mai osservato nella sua vita.

            Un uomo talmente cosmopolita, dal punto di vista calcistico, da non rivelarmi di essere tifoso genoano nel momento in cui, con l’entusiasmo dei bambini, gli proclamai di aver scelto la Sampdoria come squadra del cuore: il suo essere rossoblù lo compresi da solo, in una occasione successiva che avrò modo di raccontare.

            Insomma. Da quella sera, dopo la lezione impartita attraverso i piccoli pezzi della buccia d’arancia, ero uscito consapevole che il calcio era una cosa seria, da studiare attentamente, praticato da persone intelligenti. Non a caso la grande Ungheria aveva in squadra un deputato al parlamento e un colonnello, e Nicolò Carosio, nella radiocronaca citava puntualmente: la palla all’onorevole Bozsik; ha tirato in porta il colonnello Puskas. Gli allenatori (mio padre aveva una grande stima di alcuni che erano stati ottimi giocatori ai suoi tempi, magari poco famosi) dovevano imporsi come acume. In quel tempo avevano un senso i numeri sulle maglie, che erano stati introdotti da poco. Adesso quando mi capita di vedere i 77 piuttosto che i 99 con il nome sulla maglia inorridisco, quasi come quando vedo il nome del presunto “leader” all’interno del simbolo di un partito.

            Ero pronto a vivere il calcio “da dentro”, sia pure ancora come spettatore, ma spettatore consapevole poi mi sarebbe capitato di praticare, in varie vesti, il gioco ma soprattutto di scriverne come continuo a fare adesso a quasi settant’anni di distanza da quell’episodio.

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